Quarta Domenica di Quaresima Anno B (Sal 137)… al Cuore della Parola…

Se è vero che “l’atto più importante della vita è la nostra morte” allora bisogna riconoscere che anche la morte di una città, come quella di Gerusalemme sotto le armate Babilonesi di Nabucodonosor nel 586 a. C. è certamente un atto importante che ha sconvolto le coscienze di Israele e di tutta l’umanità. Il Sal 137 ha affidato alla memoria dei popoli quel giorno divenuto emblema di tutte le tragedie umane, personali e sociali.

1    Sui fiumi di Babilonia

là sedevamo e piangevamo

ricordandoci di Sion.

2 Sui salici, in mezzo a quella terra

appendemmo le nostre cetre.

 

3  Sì, là ci chiesero

i nostri deportatori parole di canto,

i nostri oppressori       canti di gioia:

“Cantateci                  canti di Sion!”

4 “Come canteremo       canti del Signore

in terra straniera?”.

5     Se ti dimentico, Gerusalemme,

dimentichi me la mia destra,

6   mi si attacchi la lingua al palato

se non mi ricordo di te,

se non innalzo Gerusalemme

al vertice della mia gioia!

 

7   Ricorda, Signore, i figli di Edom

che nel giorno di Gerusalemme

dicevano: “Radetela, radetela al suolo

fin dalle fondamenta!”.

8  Figlia di Babilonia devastatrice,

beato chi ti renderà il contraccambio

di quanto ci hai fatto!

9  Beato chi afferrerà e sfracellerà

i tuoi piccoli contro la pietra!

Salvatore Quasimodo nel 1944, quando l’indignazione per le atrocità della seconda guerra mondiale imponeva la necessità di dover rifare l’uomo, rielabora il salmo 137:

E come potevano noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento
.

 

È la rappresentazione degli orrori commessi dai nazisti sulla popolazione inerme degli italiani, massacri che suscitavano panico e paura tra i civili e il silenzio dei poeti. Orribili erano i morti abbandonati nelle piazze, il lamento dei fanciulli, il grido straziante della madre che vedeva il proprio figlio appeso sul palo del telegrafo. Scene reali che si verificavano nelle città e nelle campagne italiane. I nazisti occupavano il Paese e i poeti non trovavano le parole per esprimere lo sconforto e il dolore che avevano nel cuore, nell’anima. Tanto dolore paralizza la mano e offusca la mente. I poeti erano ridotti all’impotenza, avevano finito di scrivere versi e avevano appeso i lori fogli puliti al vento della guerra perché la poesia è impotente di fronte ai morti e alla barbarie. È l’impossibilità da parte dei poeti di scrivere poesie quando la patria è occupata dal nemico, quando la popolazione soffre e piange i suoi difensori, quando la madre perde il proprio figlio. Il poeta non aveva l’animo lieto e non riusciva a trovare le parole per esprimere la propria rabbia contro il nemico occupante, così come gli ebrei, durante la prigionia in Babilonia, non riuscivano a cantare i loro salmi ed avevano appeso le loro cetre sulle fronde dei salici.

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Sono anni di sangue e di pianto per Gerusalemme, la città crolla e il popolo è deportato in esilio in Babilonia, il Sal 137 è il lamento ufficiale di questo periodo. Il Salmo sembra essere nato idealmente sulle rive dei fiumi di Babilonia e pare echeggiare le assemblee di preghiera che, in assenza di edifici di culto, si svolgevano lungo i canali di irrigazione del Tigri e dell’Eufrate. Si tratta di una lamentazione pubblica ma non è una supplica, la preghiera di implorazione a Dio è praticamente assente. Si tratta, piuttosto, di un’esaltazione della città santa nonostante la sua rovina, è la professione di un amore incrollabile, fatta in controluce, sotto l’incubo del dolore e dietro lo schermo delle lacrime. Il salmista, per uno straordinario artificio letterario, rivive l’amara esperienza dei deportati in Babilonia, facendosi uno di loro.

Il salmo si snoda tra due immagini: l’acqua e la roccia.

Inizia col tema dell’acqua che scorre, acqua dei canali di Babilonia ma anche acqua di lacrime che scorrono dai canali degli occhi dei deportati e che significano lo scorrere irreversibile del tempo e la sua fuga incontrollabile. Il poema si chiude invece con l’immagine inversa della roccia, simbolo del combattimento e dello sforzo compiuto per dominare il tragico destino. Il salmo è strutturato, quindi, sull’antitesi di due simboli che manifestano due volti dell’uomo: l’uomo sottomesso al tempo e al suo destino e l’uomo conquistatore, lottatore, dominatore. Si passa dall’uomo seduto all’uomo in piedi.

La simbologia spaziale e quella temporale sono evidenti nel salmo:

Simbologia spaziale: Gerusalemme/Sion – Babilonia/Edom

C’è una terra straniera dalla quale si è circondati e una terra amata, posta al di sopra di tutto.

C’è un fiume babilonese che genera fiumi di lacrime, un’acqua caotica di morte e distruzione e una terra sicura il cui ricordo è continuo, assillante, lancinante ma fonte di speranza e consolazione. Verrà un giorno, suggerisce implicitamente il salmo, nel quale non saremo più seduti nelle acque del dolore e della morte ma ascenderemo alla roccia dove il male sarà spezzato

Simbologia Temporale: passato – presente – futuro

C’è un passato che è l’esilio dove tutto l’essere era bloccato, la vista annebbiata dalle lacrime, le mani inerti avevano appeso le cetre, le labbra sigillate senza più poter cantare, i piedi paralizzati perché si stava accasciati a terra perché il salmista piuttosto che cedere al richiamo di consolazioni che gli farebbero pensare ad altro, preferisce che la sua destra si paralizzi, che gli scivoli l’arpa dalle mani e il canto si strozzi nella gola.

Un presente dove domina Gerusalemme e il ricordo di lei, l’unica ragione per continuare ad esistere; un futuro nella certezza che il Signore si ricorderà e farà giustizia. I tre tempi sono sostenuti dal ricordo che coinvolge Dio e l’essere umano: il ricordo dell’esilio, il ricordo di Gerusalemme, il ricordo di Dio.

vv.1-4

Il quadro della poesia è composto da un fiume, qualche albero, un uomo in lacrime seduto sulla riva e una strana associazione: un albero delle cetre. La Mesopotamia era chiamata la terra in mezzo ai due fiumi, il Tigri e l’Eufrate. Lungo quei corsi d’acqua forse si stendevano anche i campi di concentramento.

“là sedevamo piangendo”: Il verbo išb: risiedere/abitare o sedere ma è evidente la plasticità del secondo. Nella Bibbia l’uomo triste e dolente si accascia a terra per indicare anche esteriormente il suo abbattimento. Alla sorgente di questa disperazione c’è il ricordo di Sion. Non è da escludere il riferimento a un rituale vero e proprio celebrato lungo i fiumi dell’esilio ove era facile attingere acqua per le purificazioni. In esso si piangeva sulla città ma anche sui propri peccati. Era una specie di sinagoga all’aperto, lì gli esiliati invocavano il perdono e la restaurazione. Ma questo rituale è privo degli strumenti musicali dell’orchestra del tempio che tacciono proprio come si faceva nei momenti più drammatici della nazione. La scena è quasi funeraria e il silenzio è squarciato solo dal  dialogo tra l’uomo e l’oppressore la cui voce sembra incombere agghiacciante, come quella di un ufficiale nazista, fuori campo.

Arriva all’improvviso, questa parola secca e agghiacciante dall’esterno (v.3). Sono i deportatori, le guardie, i carcerieri, i torturatori, i boia che sono attorno al gruppo atterrito e silenzioso, proprio come in una delle infami scene dei campi di concentramento nazisti. Essi vogliono che le vittime li divertano con i loro canti folkloristici, proprio come le scene dei campi dove gli ebrei o i prigionieri politici erano costretti ad organizzare orchestre ed esecuzioni musicali che accompagnassero altre terribili esecuzioni, quelle capitali, e distendessero ufficiali ed aguzzini. Basta essere stati prigionieri per comprendere la scena perché si verifica in ogni guerra. I conquistatori si sono sempre divertiti a far suonare davanti a loro gli artisti dei paesi vinti. Essi vi vedevano quasi una consacrazione della loro vittoria. I vincitori attraverso l’imposizione di una liturgia artificiosa costringevano gli dei vinti ad esaltare il dio trionfatore. Sansone, per esempio, sconfitto viene condotto come fenomeno da circo nel tempio dei filistei durante una festa popolare:

Nella gioia del loro cuore dissero: «Chiamate Sansone perché ci faccia divertire!». Fecero quindi uscire Sansone dalla prigione ed egli si mise a far giochi alla loro presenza…” (Gdc 16,25).

Gli oppressori chiedono ad Israele “versi poetici” (parole di canto), poi canzoni di gioia e infine i canti di Sion cioè legati alla città santa, alla liturgia ebraica. “Cantateci i canti di Sion!”, ma i canti di Sion sono i canti del Signore. È impensabile che la parola di Dio divenga materia di spettacolo: il culto non ammette di essere degradato in teatro. Gli ebrei infatti come risposta sostituiscono alla parola Sion, il termine sacro Signore. I canti di Sion hanno come tema Dio sono preghiere e non testi di spettacolo, celebrano il Signore. Intonare questi canti allora è un atto blasfemo, una profanazione delle cose sante, un sacrilegio. Ma per gli aguzzini il loro Dio ormai è morto e i suoi canti sono morti con lui sotto la potenza delle armate babilonesi. Israele è certo invece che il suo Dio vive, per questo la reazione dei deportati è sdegnata e decisa. Non sono canti di Sion, cioè tipici di una razza e di una terra ma sono inni santi, messi sulla bocca di Israele dal Signore stesso, sono professioni di fede, espressione di un’adesione esclusiva e totale a Dio.

Ora si fa di nuovo silenzio e l’ebreo è solo,incarnando tutti gli esuli e i perseguitati di ogni tempo e dalle sue labbra esce un grido che squarcia il silenzio. Proclama l’amore disperato e indistruttibile che lega ogni israelita a Sion.

vv.5-6

Si leva verso il cielo una sfida: non solo nessun canto può essere cantato fuori di Sion ma anche nessun pensiero può essere privo di questa stella polare. C’è un gioco di parole sul verbo dimenticare: la mano che dimentica si inaridisce, si paralizza. Appena mi dimentico di Sion, subito la mano mi dimentichi, ribellandosi ad ogni sua funzione.

La mano è fondamentale per ogni suonatore di strumento, soprattutto per la cetra e la lingua è fondamentale per ogni cantore. Allora non solo la mano non obbedisca più al suo padrone ma anche la lingua resti per sempre bloccata, incapace di emettere suoni. Io devo far salire Gerusalemme al vertice sommo, alla corona, alla vetta di ogni mia gioia

vv.7-9

Ad una prima lettura del testo risaltano ai nostri occhi gli ultimi due vv. palesemente violenti che sono stati censurati nella “Liturgia delle ore” del Vaticano II. Questa è la strofa più carica, una furibonda imprecazione contro i nemici di Gerusalemme, un appello a Dio perché scateni la sua vendetta. La maledizione è affidata al Signore, al suo ricordo redentore e vendicatore. Il giorno di Gerusalemme è la data fatidica del crollo di Gerusalemme. L’armata babilonese sfondò le mura della città il nono giorno del quarto mese (giugno-luglio) del 586 a.C. incendiando il tempio. Gli edomiti approfittando della situazione disperata in cui versava Giuda si alleano ai babilonesi nell’opera di saccheggio. Nel giorno di Gerusalemme essi si erano schierati anima e corpo con gli invasori incitandoli alla totale eliminazione di Sion sin dalle fondamenta. Alla figlia di Sion si oppone la figlia di Babilonia, alla città della pace la metropoli dell’imperialismo e dell’oppressione. Essa è definita come la devastata, un participio passato che però si può tradurre anche con un participio futuro “volta alla devastazione, degna di essere distrutta”. Storicamente Ciro non  devastò Babilonia durante le operazioni di conquista allora si preferisce tradurre “Babilonia devastatrice”. In realtà in ebraico molti verbi o termini sono volutamente suscettibili di più interpretazioni. Mantenendo infatti ambedue i sensi, nel nostro caso, non è assurdo pensare che il salmista abbia voluto dire che la città che devasta è devastata essa stessa. L’esperienza comune non conferma forse che quando facciamo del male in realtà ci facciamo del male?

Giungiamo alla terribile beatitudine-maledizione dei vv. finali v.9 .

I padri della Chiesa nei secoli per evitare l’imbarazzo nella lettura di questo versetto si sono sforzati di spiritualizzarlo.

Agostino per esempio commenta: “Chi sono i figli di Babilonia? I cattivi desideri nascenti…; quando sono ancora piccoli, sfracellali alla pietra che è Cristo”.

Come se ci fosse bisogno di difendere difendere la parola di Dio!

Il poeta si allinea ad un tragico bagaglio di violenza presente in tutta la storia, antica e recente. Ad ogni conquista, oggi come allora, infatti segue un massacro.

Se pensiamo alle guerre islamiche, alle violenze dei romani e dei barbari, alle stragi dei crociati. Il fiume di sangue della storia dei popoli ha toccato anche la storia della salvezza che è sì salvezza ma nella storia. L’amore viscerale per Sion può ridimensionare  il contenuto dell’imprecazione che rimane però un gesto di ferocia simile alla prassi bellica orientale di sventrare le donne incinte quasi per negare alla radice la vita del popolo nemico.  A Babilonia Israele ha solo la forza delle parole e la speranza nella giustizia di Dio.

I SALMI IMPRECATORI

Ci sono diversi salmi imprecatori nella Bibbia e sempre l’orante in questi salmi chiede a Dio di far violenza sui nemici. Di solito sono testi poco noti ma non c’è una sola parola di Dio che debba essere lasciata cadere dice Gesù, neppure uno iod che è la più piccola lettera dell’alfabeto ebraico. Noi invece siamo abituati a far cadere dei pezzi di salmi, come in questo caso. In realtà testi come questo ci interrogano sull’interpretazione giusta da attribuire a parole che sembrano contraddire il messaggio della Scrittura. Se partiamo dal presupposto che tutti i salmi sono preghiera e sono dati come testi su cui poter pregare, cosa fare allora davanti a Salmi come questo?

B. Costacurta sostiene che se ci sforziamo di entrare nell’intenzione dell’autore, notiamo come lui o lei richieda l’intervento di Dio non solo perché i nemici vogliono distruggere Israele ma perché con Israele vogliono distruggere Dio. Distruggere il popolo è distruggere Dio stesso. L’idea è che se Dio non interviene i nemici penseranno che Dio non c’è. Non si tratta di una questione personale, non è l’orante ad essere messo in questione ma Dio. In ultima analisi, la preghiera imprecatoria può essere assunta solo da chi ha a cuore l’intenzione di Dio ed ha una grande funzione pedagogica: mettermi nel cuore la preoccupazione dell’instaurarsi del Regno di Dio e di essere aiutato a capire che il male mette in questione Dio stesso; questo genere di preghiera rende più profondo ed esplicito in me l’orrore del male perché davanti ad esso reagisco violentemente.

Solo se una realtà non ci piace ci arrabbiamo! Avere in orrore il male è rifiutare ogni connivenza con esso, da questi salmi devo imparare a reagire così anche davanti al mio male considerandolo inaccettabile e se il male per noi è inaccettabile non ci è possibile rimanere calmi davanti al male. (vangelo scorso). I nemici allora sono simboli del male, di ciò che si contrappone a Dio. Rimanere calmi davanti al male non è indice di bontà ma di disinteresse; è vivere in assoluta connivenza e indifferenza verso il male. La preghiera imprecatoria ci costringe ad arrabbiarci e a giudicare il male per ciò che è: inaccettabile.

Se esprimiamo la nostra rabbia davanti a Dio allora la violenza che è in noi si modifica diventando desiderio di giustizia. Attraverso la preghiera esprimo il mio desiderio di giustizia ma rinunciando alla vendetta personale perché chiedo a Dio di vendicarsi. La preghiera fa emergere la mia violenza ma al tempo stesso me ne espropria lasciando che mi abbandoni alla giustizia divina quando chiedo a Dio che agisca secondo i suoi criteri. L’autore biblico chiede giustizia secondo le modalità espressive di cui dispone, poi però scopre che i criteri di risposta al male di Dio sono diversi dai suoi; Babilonia infatti non sarà devastata!

Quali sono i criteri di giustizia di Dio?

Quelli di rendere giusto il peccatore attraverso il perdono, attraverso qualcuno che si fa vittima per trasformare il male in bene. Allora la vendetta che il salmista chiede e che anche noi chiediamo non è altro che la vendetta di pasqua,la vendetta del figlio che non uccide ma muore per distruggere il peccato e rendere santo il peccatore.

I salmi imprecatori ultimamente chiedono la Resurrezione di Cristo, unica possibilità perchè Dio  si manifesti come Dio e il male sia distrutto.

Suor Mara Campagnolo ssc

IV quaresima anno B LECTIO sul Sal 137 (136)